Cerca

Biomarcatori e prevenzione: focus sulla ricerca per l’Alzheimer all’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche

Pubblicato il 20/09/2024 - Redattore Colonna Duilio
In occasione della Giornata mondiale dedicata alla malattia, il dottor Stanzani Maserati fa il punto su stili di vita, diagnosi precoce e nuove frontiere della ricerca

Ogni giorno, migliaia di famiglie in tutto il mondo affrontano la perdita più dolorosa: quella dei ricordi, della personalità e dell’indipendenza di una persona cara. L'Alzheimer, la forma più comune di demenza, non colpisce solo la memoria, ma anche il cuore delle relazioni, delle vite condivise e dei momenti che ci definiscono. In occasione della Giornata Mondiale dell'Alzheimer, il 21 settembre, l’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna si unisce all’appello globale per sensibilizzare su una condizione che tocca milioni di persone e per ricordare che, di fronte a questa malattia devastante, non siamo impotenti.

Dietro ogni numero, c’è una storia: secondo il Rapporto Mondiale Alzheimer 2023 elaborato da Alzheimer’s Disease International (ADI), attualmente sono 55 milioni di persone nel mondo a convivere con una forma di demenza. In Italia, oltre 1.480.000 famiglie lottano ogni giorno contro questa malattia, che rappresenta il 50-60% dei casi di demenza e continua ad essere una sfida cruciale per la sanità pubblica, sia in Italia che a livello globale. Con l’aumento dell’aspettativa di vita, si prevede che il numero globale di persone affette da demenza crescerà a 78 milioni entro il 2030 e a 139 milioni entro il 2050. Questo aumento esponenziale porterà i costi associati alla malattia a salire da 1,3 trilioni di dollari nel 2019 a 2,8 trilioni entro il 2030.

Nonostante i progressi degli ultimi anni nella diagnosi e nel trattamento della demenza, non esiste ancora una cura definitiva. Tuttavia, come testimonia il dottor Michelangelo Stanzani Maserati, neurologo dell’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, la prevenzione gioca un ruolo centrale.

Dottor Stanzani, qual è la situazione attuale rispetto alla diagnosi e prevenzione dell'Alzheimer?
La situazione attuale a livello scientifico è complessa e molto dinamica, e questo è un bene per tutti noi dopo almeno due decenni di relativa quiete. Sul versante della diagnosi ha sempre più rilevanza l’individuazione di biomarcatori, cioè di indici quantificabili che permettano di definire una diagnosi precisa, anche anni prima che la malattia si sviluppi. Oltre agli indici neuropsicologici e neuroradiologici, la parte del leone la fanno attualmente i biomarcatori liquorali. Abbiamo oggigiorno la possibilità di dosare nel liquor cefalorachidiano, prelevato a livello lombare con una metodica analoga a quella utilizzata per le normali anestesie spinali, delle sostanze (tau, fosfo-tau, beta-amiloide, tra quelle principali) che possono aiutarci a diagnosticare con precisione la presenza o meno di un processo degenerativo corticale cerebrale, quale è quello che si ha nella malattia di Alzheimer. E, fatto ancora più importante, sono in atto numerosi studi di analisi di biomarcatori anche su sangue, cosa che renderebbe assai più agevole la diagnosi e soprattutto la capacità di seguire nel tempo i pazienti più a rischio di sviluppare la malattia, così come coloro che purtroppo già presentano sintomi.

In che direzione si sta concentrando la ricerca sulla malattia d’Alzheimer?
Le nuove linee di ricerca ci confortano in tal senso e il nostro Istituto segue proprio come attività scientifica principale questa prospettiva. Per fare ciò è necessaria una competenza approfondita in più campi e un’attività di coordinazione tra chi lavora in questo ambito, a partire dalla clinica, come attività ambulatoriale svolta da specialisti con esperienza sul campo, sino al laboratorio condotto da chi, non solo garantisce che le tecniche di dosaggio dei biomarcatori siano accurate, ma che è anche in grado di avere nuove idee e sviluppare nuove tecniche per perfezionare sempre di più il processo diagnostico. Al nostro Istituto siamo attrezzati in tal senso e il laboratorio guidato dal professor Piero Parchi è coinvolto a livello internazionale nella scoperta e definizione di nuovi biomarcatori.

In merito alla prevenzione, ci parla dell’importanza della diagnosi precoce e lo studio dei biomarcatori?
Se da un lato la diagnosi è di importanza fondamentale, dall’altro vi sono buone speranze anche sul versante della prevenzione. Nell’estate scorsa è stata pubblicata su una prestigiosa rivista internazionale (The Lancet, ndr) una ricerca aggiornata sui fattori di rischio potenzialmente modificabili per lo sviluppo di demenza. Nel complesso, fare fronte a questi fattori di rischio potrebbe prevenire sino al 45% delle demenze. I fattori di rischio coinvolti sono stati aggiornati a 14, e ognuno di essi contribuisce, secondo una certa percentuale, allo sviluppo di demenza in differenti epoche della vita. A livello individuale, giocano un ruolo importante fattori come la perdita di udito e della vista, l’obesità, l’ipertensione, il diabete, alti livelli di colesterolo LDL, i traumi cranici, l’abitudine al fumo, l’eccessivo uso di bevande alcoliche, l’inattività fisica e la depressione, mentre a livello collettivo incidono la bassa scolarizzazione, l’isolamento sociale e l’inquinamento atmosferico. Ben si comprende quindi la necessità di considerare seriamente questi fattori per le loro dirette conseguenze, sia a livello individuale sia a livello collettivo di politiche sociali e sanitarie.

Quanto è importante la ricerca in questo ambito?
Oltre alla prevenzione e alla diagnosi, la ricerca mira anche a selezionare terapie sempre più efficaci. Attualmente, i presidi farmacologici e quelli non farmacologici, come la stimolazione cognitiva, hanno la capacità di rallentare lo sviluppo della malattia e migliorare i disturbi emotivi e comportamentali che ad essa si associano. Quest’azione di contenimento non è purtroppo risolutiva, e la malattia, una volta iniziata, progredisce in maniera più o meno rapida, talora indipendentemente dalle azioni terapeutiche poste in essere. Negli ultimi anni, però, una nuova speranza si è profilata all’orizzonte con l’utilizzo degli anticorpi monoclonali. Questi farmaci sono come frecce armate con delle punte mirate contro specifici bersagli. Allo stato attuale, il principale bersaglio è la sostanza amiloide, una proteina che si accumula nei neuroni e che porta a degenerazione la cellula. Tuttavia, nonostante gli sforzi, i risultati che ci aspettavamo sono stati buoni ma non eccellenti. Inoltre, gli anticorpi monoclonali contro l’amiloide non si sono mostrati privi di effetti collaterali. Per queste ragioni, le autorità europee di controllo dei farmaci non hanno ancora dato l’assenso alla loro commercializzazione. Nonostante ciò, alcuni di questi anticorpi, che negli studi sperimentali hanno mostrato migliori effetti terapeutici e minori effetti collaterali, sono ancora al vaglio delle autorità e, in futuro, potrebbero essere ammessi. Comunque, se non saranno questi anticorpi, molto probabilmente lo saranno altri in prospettiva, armati con delle “punte” differenti contro altri tipi di bersagli oppure sarà una combinazione di più farmaci, anticorpi monoclonali e non, che ci permetterà di affrontare la malattia di Alzheimer con maggiore decisione. L’eventuale utilizzo di anticorpi monoclonali, considerata la necessità di una somministrazione in ambito ospedaliero e il loro costo elevato, necessiterà inoltre di una valutazione approfondita da parte delle politiche economiche governative e dell’amministrazione sanitaria, spingendo inevitabilmente a una selezione accurata dei pazienti candidabili alla terapia, considerandone sia i benefici sia i rischi connessi. Molto probabilmente, almeno nelle fasi iniziali, si circoscriverà il nuovo intervento terapeutico a coloro che mostreranno segni della malattia nelle fasi più precoci, così da rendere la terapia più sicuramente efficace.

Come si sta muovendo l’Istituto delle Scienze Neurologiche nei confronti della malattia di Alzheimer?
Tutti i concetti espressi in precedenza sottolineano ancora di più l’importanza dell’individuazione di biomarcatori nell’intento di fornire a ogni paziente una diagnosi precisa e precoce, ma anche un piano terapeutico sostenibile e il più possibile su misura. L’Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, così come tutti gli altri istituti a carattere scientifico in Italia, sarà chiamato in prima linea a sostenere non solo lo sforzo di ricerca in questo ambito, ma anche a partecipare alla somministrazione e al monitoraggio delle terapie che verranno.