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Quando trapanare il cranio era una tecnica “poco invasiva”

Pubblicato il 29/08/2013 - Redattore s.dinicolo
A pochi giorni dalla pensione, Marco Leonardi, direttore di Neuroradiologia dell’ISNB, racconta i suoi oltre 40 anni di attività

 

47 anni di carriera, decine di migliaia di angiografie, i servizi di neuroradiologia di 3 ospedali italiani riorganizzati, oltre 500 pubblicazioni tra le quali alcune pioneristiche sulla TAC, e poi  corsi, congressi e convegni. Sono questi i numeri che raccontano la carriera di Marco Leonardi.

Una storia iniziata da giovanissimo, quando a tavola ascoltava il padre medico raccontare dei suoi casi. “Li discuteva con mia madre. Certamente mi ha influenzato”. A 17 anni si iscrive a Medicina e sceglie Radiologia. Attività che non lo soddisfa pienamente “Mi sono accorto che facevo anche 10 esami senza rendermi conto che erano per lo stesso paziente. Avevo perso di vista la persona”. Qualche anno dopo, complice anche l’incontro con un neurochirurgo di Udine molto stimato, inizierà ad occuparsi di neuroradiologia dando il via a un’esperienza che durerà 40 anni.

Dott. Leonardi, come è cambiata la neuroradiologia in questi anni?

Quando non c’era ancora il computer, le tecniche utilizzate erano molto invasive. Eravamo molto più vicini alla medicina egiziana che non a quello che facciamo oggi. Guardi le faccio vedere una cosa (si alza, prende degli oggetti incorniciati in un quadretto). Nel 1973, il dottor Corrado Cileno ha inventato questa cosa. Per vedere i ventricoli si faceva una trapanazione cranica, si andava con l’ago nel ventricolo, dentro l’ago si faceva passare questa catenella d’oro come quella che lei ha al collo. Poi si metteva il paziente con la testa in basso, la si spostava e si faceva scivolare la catenina dove si voleva. Una volta raggiunto il punto giusto, si mandava dentro il cateterino e si vedevano i ventricoli. Si chiama ventricolografia. Era una tecnica rivoluzionaria all’epoca, considerata poco invasiva. Erano tempi in cui non si riusciva a sapere se una persona con ictus aveva avuto un’emorragia o un’ischemia. Qualche anno dopo è arrivata la TAC. Una rivoluzione incredibile. Ricordo molto bene quando ho visto per la prima volta il chiasma ottico, una struttura piccola e profonda nel nostro cervello. Noi non lo vedevamo mai direttamente. Dovevamo iniettare il gas, vedevamo un’ombra e sapevamo che era quello.  Con la TAC il chiasma era lì. È stato entusiasmante. E pensare che ci sono stati tempi in cui si pensava che la neuroradiologia servisse a poco. Io non ne sono mai stato convinto. Ho sempre cercato di capire e di imparare, di studiare nuove tecniche. Ho frequentato molti corsi in Germania, Francia, America e se non mi davano i permessi per andare, sfruttavo le ferie ordinarie. 

Non si può dire che le mancasse la determinazione.

E’ entusiasmo. Ricordo quando a Udine abbiamo comprato la TAC. Abitavo vicino l’ospedale. Quando c’era il temporale e sentivo un tuono, prima che finisse il rumore ero già lì a controllare che tutto fosse in sicurezza. 

E’ un lavoro che le ha dato molte soddisfazioni?

Moltissime. Tra le più recenti il Centro con la risonanza 3 Tesla qui al Bellaria, seconda in Italia, che esiste da 10 anni e ci ha permesso di fare molta ricerca in particolare sulla caratterizzazione dei tumori cerebrali, nello studio dell’Epilessia e dello stato vegetativo.  E poi il primo “Filmless Department” di Italia. Un sistema completamente digitalizzato a cui siamo arrivati con un autofinanziamento, reinvestendo la spesa che abbiamo risparmiato non acquistando più pellicole.  Era ili 1998. Una conquista che ha permesso di cancellare tutta una serie di burocrazie e che ha reso tutto facile e veloce.  Ricordo che quando sono arrivato ho trovato apparecchi di 40 anni prima. E’ stata una rivoluzione che ha incontrato molte resistenze ma ora non potrebbero più lavorare in modo diverso. L’esperienza pioneristica di questo progetto fu poi allargata a tutti i reparti e all’area bolognese.

Ci sono state anche sconfitte?

Una in particolare. In 30 anni, non sono mai riuscito a ottenere la costruzione di una scuola di specializzazione in Neuroradiologia. Ho incontrato moltissime ostilità da parte dei potenziali concorrenti. Quando la neuroradiologia era meccanica e invasiva, all’epoca si doveva fare un buco in testa, nessuno la voleva fare. Poi è arrivata la TAC. Tutti hanno immediatamente visto le nuove opportunità offerte da questo nuovo strumento. Da una parte c’erano i radiologi che se ne sono appropriati il più possibile, volevano fare tutte le risonanze; dall’altra i neurochirurghi volevano fare l’interventistica. Io avrei invece voluto una scuola che formasse i medici a partire dalla laurea. In questo momento il sistema prevede una laurea in medicina, poi 5 anni di radiologia e solo successivamente si può iniziare neuroradiologia. E’ incredibile.”

Ultimamente i giornali parlano dell’evoluzione della professione medica. Un tempo il medico era un professionista quasi onnipotente, mentre oggi, complice la facilità di recupero delle informazioni sul web, è sempre messo in discussione dai pazienti, nel peggiore delle ipotesi è minacciato di azioni legali.

È una brutta cosa. Mi capita di vedere medici che non vogliono operare. La paura di un’azione legale a volte supera il senso di responsabilità. Io sono stato condannato a pagare 2 milioni di euro. Ho eseguito un trattamento per angioma a seguito del quale il paziente è rimasto in stato vegetativo. Non ho fatto errori secondo le perizie, ma non avevo fatto firmare il consenso informato. Secondo me, ammazza il rapporto di fiducia medico-paziente. In un altro caso ho operato un paziente con un aneurisma. Un intervento difficilissimo. Ho fatto tutto quello che potevo fare. Il paziente torna a casa e muore dopo una settimana. Il medico di famiglia consigliò di segnalare la cosa al giudice visto che c’era stata un’operazione recente. Sa chi mi ha difeso in quell’occasione? … i parenti. 

L’ha inorgoglita? 

(mi risponde con occhi lucidi) Mi ha commosso … Persone eccezionali.

Parliamo di ricerca. Molti pensano che la ricerca si faccia solo al microscopio. Vuole spiegarci come funziona la ricerca in Neuroradiologia?  

La nostra ricerca è prevalentemente clinica. Lavoriamo sul paziente per capire cosa stiamo facendo e come lo stiamo facendo. Scriviamo molto perché scrivere, avere i dati sui pazienti, permette di rivedere il proprio lavoro e di rimettere tutto in discussione se serve. Consiglio anche ai miei studenti di farlo.  Scrivere, ci costringe a rileggere a correggere, a presentare il nostro lavoro alla revisione degli altri. È un momento molto importate nella crescita personale.

L’ISNB sta per concludere il suo primo triennio di ricerca. Secondo lei è partito con il passo giusto? 

Il fatto che sia partito è già una cosa buona. L’Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico rappresenta la forma migliore di ospedale perché ufficializza le esigenze della ricerca che negli ospedali non c’è. In un IRCCS c’è l’obbligo della ricerca finalizzata all’assistenza, quella cioè che serve per curare meglio i pazienti. Lascio un’equipe valida. Piano piano arriveranno grandi risultati.

Il 31 ottobre sarà il suo ultimo giorno di lavoro. Cosa farà  dal 1 novembre?

Porterò i nipotini a scuola e poi … non lo so. Forse continuerò a fare consulenze, magari accoglierò ancora qualcuno dei miei pazienti. Non ho ancora programmi. Ma mia moglie mi consiglia di fare qualcosa per non impazzire. Non mi dispiacerebbe prendere il camper e girare l’Europa dell’est che non conosco.

La ringrazio. Le faccio i miei migliori auguri per il futuro. 
Grazie. 

Ci salutiamo. Prima di lasciare l’edificio, incrocio tecnici e infermieri che hanno lavorato con lui. “Ci ha insegnato che il livello minimo consentito è l’eccellenza”. “Vuol chiedermi com’è lavorare con Leonardi? … Io mi chiedo come sarà lavorare senza di lui.”